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Corriere della Sera - La Lettura, Corriere della Sera (2020)

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Epopea americana in forma di fiume

Jorie Graham ricorre a una scrittura di vasto respiro che poggia sull’esempio di Walt Whitman (e che, invece, è poco congeniale al Dna della tradizione italiana). Nei suoi versi c’è posto per tutto e per tutti, persino per il mondo

    Corriere della Sera 9 Feb 2020 di ROBERTO GALAVERNI

Se esiste una possibilità espressiva difficilmente praticabile per la poesia italiana contemporanea, questa senza dubbio va cercata nei modi e nei registri epici. Con questo non s’intende ovviamente qualcosa di simile all’epos degli antichi e alla sua unità per sempre perduta, ma un’epica comunque problematica, interrogativa e imperfetta, che poi è la sola che sembrerebbe concessa ai moderni.

È difficile indicarne le ragione. Forse la nostra lingua poetica possiede un Dna lirico e petrarchesco che rende singolarmente rischiosa l’estensione della voce poetica alla materia stessa delle cose. Quando questo accade, il rischio è sempre lo stesso: che la lingua poetica scada nella prosa blandamente narrativa, ma più ancora, all’opposto, che l’espressione poetica sfondi nell’enfasi e nella retorica.

Le cose vanno diversamente per i poeti in lingua inglese, e negli Stati Uniti anche più che nella vecchia Inghilterra. Nella formazione di queste tradizioni il posto più importante spetta non a caso alla totale immanenza del teatro shakespeariano, come giustamente molti hanno sostenuto. Ma più ancora, almeno per gli americani, importa il precedente di Walt Whitman, il poeta del canto del mondo e di sé stesso nel mondo. E proprio il grande padre Whitman è di gran lunga la presenza che più si avverte nella poesia di Jorie Graham, tanto più nel suo nuovo libro, Fast, uscito nel 2017 negli Usa e adesso tradotto da Antonella Francini. Anche se va subito detto che un pezzo importante dell’Italia l’autrice lo porta con sé. È nata a New York, infatti, ma è cresciuta a Roma e parla molto bene l’italiano. Di conseguenza, come spiega Francini, anche il lavoro di traduzione l’ha vista particolarmente attiva e coinvolta.

Ma perché il sentimento epico? Perché Whitman? È presto detto: perché in queste poesie, in cui pure scorrono nel modo più frenetico e veloce ( fast, appunto) immagini, oggetti, pratiche, figure, consuetudini di un mondo, diciamo così, ipercontemporaneo, l’interrogazione principale riguarda sempre e comunque la consistenza effettiva dell’essere, umano ma anche, come dal titolo di una poesia, post-umano; e allora il sentimento di sé, degli altri e del mondo, della presenza della nostra vita qui e ora, e insieme del suo mancamento, della sua possibile illusorietà. Molte poesie sono costruite su un doppio filo intrecciato: la voce che parla vive come lasciandosi portare dalla corrente della vita stessa, ma intanto guarda vivere dall’esterno sé stessa e gli altri, interrogandosi continuamente sulla plausibilità del proprio contatto col mondo, sull’immedesimazione, su che cosa significhi esistere, e insomma sul mistero stesso della vita.

Potremmo dire che Fast è anzitutto un libro sul percepire e percepirsi («Sento il mio pensare »), sull’identità, non solo personale, come autenticità e contraffazione, come naturalezza e artificio, tanto più che il confine tra i due versanti appare di fatto indeterminato. «Sono le 19.85, è primavera inoltrata, è l’apogeo del capitale, del/ fluire, della fruizione dell’andare»; o ancora: «Ecco arrivare il mio tu, sorge in me, il mio sentire/ il tuo essere, il mio me, che in-/ grandisce, elabora, scorre». È questo lo spirito di Whitman di cui si diceva, e che a questo punto può risultare problematico, sfrangiato, labile quanto si vuole, eppure sempre invariabilmente inteso a redimere e redimersi nel presente o mai più. «Ora. È un luogo ora. Tu hai un’ora?».

In questi testi in forma di fiume, dove un profluvio di trattini e freccette sottolinea il senso di continuità e di legato del tutto, si crea così un singolare effetto di rallentamento e di sospensione, di compresenza del tutto nell’attimo (forse l’epica è proprio questo). Allo stesso modo, in questa New York o in questo mondo in cui tutto scorre e scorre e si trasforma — le questioni del reale e del virtuale, dello sfruttamento ambientale, della mercificazione, e poi le migrazioni, le guerre, gli acquisti, il computer, gli occhiali 3D e tant’altro — Graham fa risuonare però una domanda più arcaica e più selvaggia, che ha a vedere con la presenza stessa delle persone e degli esseri. Certo, i suoi non sono affatto argomenti pretestuosi, ma è comunque l’avvertimento indubitabile di una specie di piattaforma del nostro esserci che altrettanto indubitabilmente appare labile e imprendibile, a inquietarla e a muovere la sua poesia.

Ecco allora un raggio di luce sul pavimento, il trascolorare fulmineo del cielo, una conversazione telefonica, la voce della vecchia madre ascoltata in cucina: cosa sono, che senso hanno, come percepiscono sé stesse, e cosa c’entrano con me?
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